Pino Tosca [Europa e Civiltà, febbraio 1972]
“Ha pasado la frontiera
el Rey Don Carlos de Borbon
tremolando la bandera
de la Santa Tradicion”
Nel pensiero tradizionalista, contrariamente a quanto si possa pensare, il termine di Hispanidad non ha mai voluto significare qualcosa di meramente geografico o concernente una determinata spazialità. La Tradizione, intesa come Weltanschauung, va al dl là del tempo e dello spazio.
Che cos’è dunque la Hispanidad, qusta parola di dieci lettere che riesce a contenere lo spirito eroico della hidalguia e l’amore furioso della Navarra per la Santa Tradicion, le cinco flechas dei Re Cattolici e le boinas rojas dei Reqetes, la santa follia ai Don Chisciotte e gli scritti federalisti di Elias de Tejada e Rafael Gambra, le giierrillas antinapoleoniche ed antiliberali diZumalacarregui e le libertà concrete dei Fueros? In un saggio sul Carlismo, pubblicato tanti anni fa, Gabriele Fergola così scriveva: “La Hispanidad non è una civiltà nazionale, ma universale, come già nel sondo antico la romanitas, essa è comune a tutti i popoli che riconoscono l’Impero dei Re Cattolici, che parlano la lingua di Castiglia e che professano la fede nella Chiesa di Roma. Napoletani e castigliani, siciliani e messicani, catalani e filippini.si sentirono tutti uniti nella Hispanidad, in questa superiore civiltà e cultura universale che postulava anche l’unione politica, pur nel rispetto delle autonomie e caratteristiche nazionali”.
Ecco perchè la Hispanidad assume allora le dimensioni di una Kultur, di una Civìltà spirituale e comunitaria. Ed ecco anche perchè nella Tradizione iberica non si parla mai di Spagna, bensì di Spagne. Come, del resto, secondo una corretta geo-politica, si dovrebbe parlare di Puglie e non di Puglia. “Nell’angolo estremo dell’Occidente, là dove terminavano i confini geografici dell’orbe antico, un pugno di popoli con a capo la Castiglia costituiva una Cristianità minore e di riserva, rude e di frontiera, che si chiamò “le Spagne” protesa nella lotta diuturna contro la minaccia costante dell’Islam”. Così scriveva il più autorevole pensatore carlista di questo secolo, Francisco Elias de Tejada in quel testo fondamentale che è “La Monarchia Tradizionale”.
Ma lo spirito eroico dell’Aurea Hispanidad non è dovuto solo alla contingenza storica. Nelle guerre carliste l’Idea imperiale, cattolica ed antimoderna di Filippo II trova un proprio completamento politico e dottrinale. Il rifiuto di tutto ciò che è “progressismo” (nel senso nichilista ed antispirituale che il termine racchiude), il radicamento nella Cristianità medioevale, l’appello allo spirito cavalleresco ed alla stessa Legge salica, secondo il doppio principio della Legittimità, contro il totalitarismo liberal-monarchico del XIX secolo, la rivendicazione dei Fueros come unica garanzia dalle liberta popolari e tradizionali, la contrapposizione fra “uomoconcreto” della Tradizione e “uomo astratto” della Modernità, ci danno già un quadro realista dei fondamenti dell’Aurea Hispanidad. Lo stesso Cristianesimo mistico e popolare, ascetico e guerriero, è una delle manifestazioni di questa innata religiosità che non ha nulla a che vedere col moderno clericalismo progressista, anzi ne è il più feroce nemico.
Non si è ispanici perchè si è nati a Madrid o a Siviglia.:Si appartiene alla Hispanidad perchè si è capaci ai lottare fino alla morte “por Dios, por la Patria, el Rey y la Santa Tradision”. La Spagna sorta dopo la guerra civile del 36/39, incarnata da Franco e l’Opus Dei, non è stata la continuità della Hispanidad tradizionale, quella che sino a qualche anno fa, a Montejurra, la montagna sacra del carsismo, vedeva decine di migliaia di Requetes accorrere da ogni angolo di Navarra a rinnovare il giuramento di fedeltà alla Tradizione. Un oceano di baschi rossi, contadini, montanari e popolani, che al canto di Oriamendi resuscitavano nel cuore di ogni uomo libero la Aurea Hspanidad.
Nel nome di questa eroica concezione della vita e della storia, a Pamplona, la bella città riedificata da Pompeo di cui porta il nome, si venera santa Maria la Real, simbolo della fede ispanica e della invincibilità navarrina. È una statuina dall’espressione dolce e materna. Da Alfonso ìl Battagliatore a Carlo il Nobile, da Espoy y Mina a Ruiz Hernandez, eroe dal ‘Tercio Numancia”, re, capitani, pastori e guerriglieri snudarono le armi ai piedi di questa Madonnina giurando di: “cortar la cabeza” ai nemici di Dio e della Tradizione, e di morire piuttosto che arrendersi. Così sfilarono a Pamplona i cinquantamila volontari dalle “boinas. rojas” al primo rullo di tamburo udito in Navarra, la fatidica sera del 18 luglio 1936, inizio della Cruzada.
E fu sempre in nome della comune Tradizione, della sovranazionalità hispanica, che nel 1861piombòin Italia il valoroso cabecilla carlista Josè Borès a capeggiare la guerriglia di Lucania contro l’invasione piemontese ed a mantenere vive le ultime fiammate dell’indipendentismo napoletano. Come, del resto, fecero i principi borbonici napoletani nella seconda metà del sec. XIX, andando ad arruolarsi volontari in Spagna nella guerriglia di Carlos VII. Due piccole patrie di una grande Patria, la Aurea Hispanidad.