LA PIETÀ POPOLARE CONTRO I NOVATORI

di Pino Tosca

Il rifiuto di una religiosità laica intrisa di razionalismo e illuminismo

Una delle principali cause delle insorgenze antigiacobine nelle varie zone del territorio  italiano è data, indubbiamente, dalla politica di tipo  laicista che le amministrazioni repubblicane – sotto l’influsso degli eventi giacobini francesi e delle logge massoniche italiane – esercitarono  negli anni che vanno da 1797  al 1810. Da questo tipo di politica, molto più insidiosa di un ateismo proclamato e imposto, non venne esentato alcun territorio italiano posto  sotto il dominio delle baionette francesi e delle coccarde dei cosiddetti «patriotti». Era una politica di una pericolosa ambiguità poiché, pur  non spingendosi mai ad un’aperta negazione della  trascendenza, si sviluppava  in un senso emarginante la. «pietas» cristiana popolare. La pretesa autonomia assoluta dello Stato (che ci ricorda  tanto il cosiddetto «Stato etico» di cui ancor oggi si ciancia), svincolato da qualsiasi norma oggettiva dei valori  cristiani, si trasformava a poco a poco in volontà prevaricante nei confronti della fede. Vi furono tentativi scismatici, persecuzioni di ordini religiosi, espropriazioni di beni ecclesiastici, imprigionamenti della «devotio» popolare, uccisioni di sacerdoti  e di fedeli, depredazioni di chiese e santuari. Nonostante  Marat ed Hebert fossero passati a miglior vita già da qualche anno, i bonapartisti ed i loro complici tricolorati ritennero di importare in Italia il già fallito tentativo anticattolico in Francia. Ma tale tentativo, per essere minimamente plausibile agli occhi  della storia, doveva pur appoggiarsi a qualche giustificazione teologica che producesse un’ecclesiologia alternativa a quella tradizionale.

Il supporto teologico fu ben presto trovato con il riciclaggio delle proposizioni del  giansenismo.

Vecchia di quasi duecento anni, questa dottrina – larvatamente propagandata dai  bonapartisti per puri scopi politici – si ispirava alle teorie di Cornelio Giansenio, vescovo di Ypres, nato nel 1585 in un villaggio di Leerdam, provincia dell’Olanda meridionale, e morto a Lovanio nel  1638. Il giansenismo non era altro che un aspetto più occulto e più insidioso, della Riforma. Là dove Lutero aveva avuto il coraggio dell’attacco diretto e violento contro il Papato e il Magistero, Giansenio si rifugiava nella formula dell’«ossequioso silenzio» giocando a fare l’«oppositore interno» nel mondo ecclesiale. Amico stretto del Du Vergier e rifacendosi al Baio, Giansenio si avvicinò alle posizioni del sinodo di Dordrecht che ribadiva la dottrina di Calvino, ed iniziò una lotta spietata ai gesuiti. I giansenisti divennero più nocivi dei protestanti, in quanto propagavano sotterraneamente ed impunemente il germe del dubbio. Ma ciò durò fino al 1° agosto del 1641, giorno in cui la S. Congregazione dell’Indice e dell’Inquisizione poneva sotto accusa l’opera più nota di Giansenio, 1′«Augustinus» condannandola. Con questo atto. L’inquisizione entrava in guerra con i giansenisti. Cominciava così a formarsi quel clan di critica clericale annidato a Port-Royal e che più tardi Fenelon chiamerà «cousin germain du calvinisme». E’ questo anche il periodo che vede instaurarsi buoni contatti fra i sopravvissuti del gallicanesimo ed i seguaci del vescovo di Ypres. Di fronte a questi deviazionisti, il Soglio pontificio non mollò, e Clemente IX, Clemente X e Clemente XI ribadirono sempre la condanna al giansenismo, tanto che le monache di Port-Royal (rimasto in piedi come centrale di propaganda e «foyer d’agitation frondeuse») le quali si opposero alle bolle, furono disperse ed il monastero, per decreto reale, venne raso al suolo nel 1710. Tre anni dopo, il Pontefice condannava ben 101 proposizioni del miglior allievo di Giansenio, il famigerato Quesnel.

Ma vediamo come il giansenismo del ‘600 possa arrivare a collegarsi al giacobinismo della fine del ‘700. A prima vista, infatti, non si capisce come i giansenisti, così duramente anticartesiani ed antirazionalisti, possano coniugarsi con i figli dell’illuminismo. I1 fatto è che i giansenisti se erano contro Cartesio, lo erano, del pari contro la scolastica, convinti com’erano che la ragione, piuttosto di essere propedeutica alla fede, fosse una nociva speculazione sulle cose del mondo. Questa posizione contrappositiva tra ragione e fede li farà incontrare con i protestanti ortodossi prima e con quelli liberali dopo, fautori della più piena autonomia della ragione in questioni religiose. Ma il contatto esclusivista con i dati della fede porterà i giansenisti ad un intimismo religioso ed una spiritualità «indipendente» di cui sarebbe interessante scorgere i riscontri nella cosiddetta «scelta religiosa» di oggi. L’antitesi tra la «Carne et sanguinis» e lo «spiritus vivificans» li portava inoltre verso un fatalismo vitalistico.

Sul piano della spiritualità, Benvenuto. Matteucci ha saputo notare come quella giansenista fosse più «una preghiera che sembra un esercizio di riflessione scientifica piuttosto che filiale conversazione con Dio, freddo esame di coscienza, ed esatta informazione della propria intimità invece che confidente colloquio» La preghiera che nasce quale «desir du coeur» diventa nel giansenismo nozionismo intessuto di memorie bibliche. Questo individualismo avrebbe portato ad un’inevitabile caduta nell’immanentismo religioso proprio nella misura che si eccedeva nell’esaltazione della trascendenza di Dio.

Da tutto ciò, come ha rilevato il Matteucci, non poteva conseguirne che «il consolidamento di un’élite sociale e religiosa, aristocratica e borghese (che assumerà ecclesiasticamente forme nazionalistiche») e che parteciperà, ibridamente, alla costituzione del clero gallicano. Qui si verifica la strumentale ed imprevista alleanza tra gallicanesimo e giansenismo. Certamente lo spirito che anima i giansenisti è diverso da quello dei gallicani. I veri giansenisti mal sopportano l’autorità e l’infallibilità pontificia, ma sono pure insofferenti di ogni ingerenza statale. Entrambi, però, una proposizione in comune ce l’hanno: l’inferiorità del Papa rispetto al Concilio, ed inoltre (ecco la nota nazionalistica) quella della limitatezza del potere pontificio di fronte ai costumi della chiesa gallicana. Quindi, se i giansenisti trovano nei gallicani una protezione politica, i gallicani trovano nei giansenisti una copertura «teologica». I1 gallicanesimo serviva al giansenismo per quella sua ostilità verso Roma; al giansenismo serviva il gallicanesimo per una libertà protettiva nei confronti di Roma.

Questa specie di eterogenesi dei fini confluisce poi nel progetto laicistico del neo giacobinismo. L’evidenza di tutto ciò si ebbe per l’appunto, nel disprezzo giansenista verso la religiosità popolare, così come si evidenziò nella fine del sec. XVIII. Basti citare le polemiche contro la Via Crucis e contro la devozione al Sacro Cuore di Gesù. Il giansenista Puiati, ad esempio, si scatenò contro la devozione della Via Crucis, introdotta da San Leonardo da Porto Maurizio, definendola come «Profana novità» e «leggendario motivo di pietà» sostenendo che la devozione al Sacro Cuore di Gesù conduceva «al materialismo, al nestorianesimo, al pelagianesimo». La dichiarazione di guerra dello spiritualismo borghese alla religiosità popolare era quindi dichiarata. Le conseguenze saranno tragiche.

Facciamo ora un salto di novant’anni ed arriviamo alla post-Bastiglia. Con l’avvento del Bonaparte, i giansenisti rialzarono il capo. Ovunque il corso arrivava, si innalzavano gli «alberi della libertà», si perseguitava la religione, si dava libero corso all’eresia, onde corrodere dall’interno l’autorità (religiosa e politica) della Santa Sede. L’Italia trovò in Scipione de’ Ricci, vescovo di Prato e Pistoia. il «leader» nazionale giansenista. De’ Ricci, insieme a Serrao e Tamburini, furono i Pellegrino ed i Bettazzi dell’epoca, ma con aspetti più marcatamente eversivi, dati i tempi lontani. Ma i «novatori» giansenisti, per quanti sforzi fecero e nonostante le forti protezioni politiche di cui godevano, non riuscirono mai a rendere «popolare» la loro eresia. Le plebe italiana. e quella rurale in particolare, restava tenacemente attaccata alle tradizioni ed ai vecchi insegnamenti, tanto che, più tardi. sia il Ricci che il Serrao dovettero provare nello stesso fisico quanto era dura l’opposizione del popolino: il primo fu preso a bastonate, il secondo fu preso a coltellate. Riuscirono solo a corrompere qualche «giamberga» e qualche sbandato alla Filippo – Egalité, tanto che la stessa Enciclopedia Cattolica di oggi scrive: «Se la “liberte’” recata sulla punta delle baionette francesi riuscì gradita a taluni ambienti borghesi, intinti di razionalismo e voltarianesimo, i ceti aristocratici e, più ancora le masse popolari, si levarono concordi a difesa dei “troni e degli altari” che la Rivoluzione d’oltralpe minacciava.»

Ma, sfortunatamente per i progressisti dell’epoca. a quel tempo sul Soglio sedeva Pio VI, nemico giurato di ogni compromesso e di ogni cedimento, uno degli «papi tosti» della storia. Visto che le due diocesi olandesi di Haarlem e Utrecht erano completamente guadagnate alla causa dei «novatori» e vista la protezione a questi concessa dalla tragicomica figura di Giuseppe II, il re «illuminato» tanto caro ai massoni, Pio VI, con i Brevi del 10 marzo e del 13 aprile 1791, condannò tutti i decreti dell’Assemblea nazionale francese in materia religiosa. I1 Nunzio a Parigi, mons. Dugnani, venne revocato; tutti gli ambasciatori che successivamente gli furono proposti dalla Francia vennero ricusati. Al contrario, il Papa concesse invece ospitalità fraterna alle zie di Re Luigi XVI, Adelaide e Vittoria, ed a più di 4.000 «preti refrattari» esuli. Nel frattempo, la gente romana uccideva il napoleonico Basville. La morte del generale Duphot, un fanatico rivoluzionario; fu il pretesto per l’attacco bonapartista contro il Papato. Napoleone, contando sull’aiuto dei giansenisti, obbligò Pio VI a trasferirsi a Siena e poi alla Certosa di San Casciano, vicino a Firenze. I1 Direttorio, sotto la spinta giansenista, trattò il Papa come prigioniero di guerra e decise di relegarlo in Sardegna, ma la salute precaria di Pio VI impedisce questa manovra. Allora, attraverso una serie infinita dì   persecuzioni ed umiliazioni sopportate con stoica fierezza, il Papa viene trascinato a   Parma, poi a Torino, a Briançon, e da qui a Valenza. In questa città, per la fatica e per il dolore, Pio VI muore il 29 agosto 1799. Soltanto due mesi prima, Napoli e tutto il Sud d’Italia erano stati liberati dalle masse sanfediste del cardinal Ruffo.

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