L’EUROPA AMERIKANA

di Pino Tosca

Diciamolo pure: abbiamo consumato gli anni più belli delle nostre battaglie giovanili nutrendoci del mito dell’Europa. A vent’anni guardavamo dall’alto in basso i piccoli nazionalisti della destra “classica” e borghese. Per noi erano dei retrogradi ottocenteschi che non avevano capito nulla della Seconda Guerra mondiale e del Nuovo Ordine Europeo. I volontari francesi della Charlemagne che combattono e muoiono per difendere Berlino dai russi restava per noi una oleografia incancellabile. Tutti i movimenti giovanili dei primi Anni Sessanta (da Ordine  Nuovo e Giovane Nazione) si ispiravano a quello che Jean Thiriart chiamava “un Impero di quattrocento  milioni di uomini” (sbagliando, perché aveva escluso la Russia europea).

Ma dieci anni dopo, in un famoso incontro a Napoli del tradizionalismo italiano, il discorso sull’Europa cominciò a vacillare. Fu Elias de Tejada che ne mise in discussione il concetto, dandogli una valenza culturale negativa rispetto al cosiddetto “mondo della Tradizione”. Per il grande pensatore carlista il concetto di Europa “non nasce nel ciclo di Carlo Magno, restauratore dell’Impero cristiano… l’Europa nasce, al contrario, nella congiura delle idee chiamate per antonomasia “moderne” col proposito di rompere l’ordine del Medioevo cristiano. Il Medioevo occidentale disconobbe il concetto di Europa per il semplice fatto che aveva conservato il concetto di Cristianità”. In ultima analisi don Francisco diceva: state attenti perché storicamente tutti quelli che si son trincerati dietro la parola Europa ci hanno portato i guai maggiori che potessero capitarci: dal luteranesimo ai moti del ’48, dall’americanismo al laicismo.

All’argomento del carlismo spagnolo potevamo sempre rispondere che la nostra Europa non era certo quella, ma si chiamava Carlo Magno o Francesco Giuseppe. Già, ma il primo non conosceva l’Europa se non come Sacro Romano Impero e al secondo si poteva applicare al massimo il concetto di Mitteleuropa (che storicamente e culturalmente fa a pugni con il Nordeuropa, protestante e laicista).

Cominciammo quindi ad assorbire la lezione ispanica e a criticare chi voleva l’Europa a tutti i costi senza porsi il problema di che razza di costruzione geo-politica si trattasse. Ci si illudeva che una Europa qualsiasi, unita o federata, dovesse costituire obbligatoriamente la terza via per scrollarci di dosso la minaccia russa e la tutela americana. Non ci si rendeva conto che l’Europa del dopoguerra, quella già ideata a tavolino da Schumann, De Gasperi e Adenauer sarebbe fatalmente stata ostaggio degli yankees, che del Vecchio Continente sono sempre stati i nemici totali. Lo stesso Adriano Romualdi, una delle menti più chiare del panorama missino dell’epoca, in un articolo su L’Italiano, additò come “primo nemico” dell’Europa la Russia. Non veniva quindi considerato che il comunismo russo aveva gli anni contati e che, per forza di cose, gli Stati Uniti avrebbero mirato non solo a “governare” di fatto l’Europa, ma a condizionare e ricattare il mondo intero.

Il pericolo americano, che già era stato intravisto da Evola nei primi Anni Trenta, era invece chiarissimo per il tradizionalismo ispanico, tanto che Elias de Tejada arrivò a dire che il destino più tragico per un tradizionalista era quello di morire amerikano.

La strada per l’Europa, quindi, ha sempre seguito il percorso tracciato dalle eresie protestanti. Con Lutero si marcia verso il laicismo, con Calvino verso il capitalismo, con Enrico VIII verso l’anglocentrismo. Se una volta criticavamo l’Europa delle mozzarelle, riferendoci alla mancanza di visone politica della CEE, cosa dovremmo dire di fronte a Maastricht e alle risoluzioni di Strasburgo e Bruxelles, tutte protese ad espropriare i popoli del Vecchio Continente dalle proprie radici e dalle proprie specificità identitarie?.

Prodi e soci si vanteranno nei secoli dei secoli di averci portato “in Europa”. Ed è sintomatico che usino queste espressioni verbali. Risulta chiaro che non si riferiscono a concetti geografici poiché in Europa nessuno può portarci, dal momento che ci stiamo già, e che il riferimento è ad un concetto politico e culturale di segno mondialista, cioè anticattolico. La recente “imposizione” europea affinchè i Savoia e gli Asburgo restino in perenne esilio dalle loro nazioni è sintomatica della “mentalità” totalitaria” che domina in quel consesso

I danni economici e culturali che la cosiddetta “Europa” sta arrecando al nostro popolo sono incommensurabili. Oggi ci vietano di produrre in agricoltura (e quindi di creare occupazione) preferendo che si viva di assistenzialismo parassitario, ci costringono ad acquistare merce scadente da altri Stati gettando a mare i nostri prodotti di qualità, ci vietano di mangiare come piace a noi la pizza, il cioccolato, la mozzarella, le banane, e persino la pasta (le nostre imbattibili orecchiette), costringendosi ad ingurgitare quelle schifezze americane che una generazione di rincoglioniti mentali va a divorare in quei stramaledetti fast-food che impestano tutta l’Italia.

In compenso, ci “ordinano” di riconoscere giuridicamente le coppie gay, parificandole alle famiglie “normali”. Insomma, la morale strasburghese è una sola: no alle “ricchitielle”, sì ai “ricchioncelli”. Non per nulla, la vessilifera di questa bella “Europa” si chiama Emma Bonino, una racchia smaniosa di voler bombardare Belgrado, al servizio di quell’altra racchiona della Allbrght e del maniaco sessuale della Casa Bianca.

In “Europa”, a Strasburgo cioè, ci sono andato una sola volta, invitato da Rauti. In un Parlamento che doveva contenere circa seicento deputati, ve n’erano in tutto venticinque. Che “legiferavano” da soli e si parlavano addosso, in assenza degli altri cinquecentosettantacinque che in quel momento se la stavano spassando a caccia di segretarie tuttofare o mangiando lumache nei ristoranti alsaziani. Se a ciò aggiungiamo il piacere di girare il mondo gratis e di incassare quaranta milioni al mese, si capisce bene che loro “in Europa” ci vogliono andare. Eccome.