di Pino Tosca
Fu nei primi giorni del 1974 che avvenne quell’evento miracoloso che Don Giussani chiama “l’incontro”, cioè un rapporto “non progettato, non previsto, sorprendente perché non prevedibile, nuovo rispetto alle conoscenze o alla vita precedente”.
L’Incontro si incarnò in un prete salesiano con il volto d’asceta. Una barba bianca, due occhi d’un azzurro intenso, una pelle candida da bambino, capelli lunghi e scapigliati, un lieve e perenne sorriso che rivelava la grandezza interiore custodita in una talare d’altri tempi: Don Giuseppe Pace. L’uomo-chiave della mia vita: l’Incontro.
Ho appreso della sua scomparsa, avvenuta il 2 novembre dell’anno scorso, a 89 anni di età, da Il Cedro e La Tradizione Cattolica, i due organi della Fraternità fondata da Mons. Lefebvre, l’unico ambito che si è ricordato di lui, di questo santo che apparve sulla mia strada e ne rovesciò la direzione di marcia. Sì, un santo, nella accezione popolare e non canonica del termine, uno di quei tanti santi sconosciuti che attraversano il mondo e di cui il mondo raramente si accorge.
Nel 1974, un biglietto arrivato nella sede di Europa Civiltà di Torino mi lasciò di stucco. Proveniva dalle Opere Don Bosco e v’era scritto, tra l’altro: “l’episcopato italiano pare voglia fare la parte di Pilato nei confronti del Referendum sul divorzio. Tocca ai fedeli stessi subentrare in prima linea al posto abbandonato dai disertori”. E, sotto, la sua firma. Tra me dicevo: ma chi è questo prete, questo Don Pace? E che vuole da noi? Non lo sa che non siamo cristiani? Ma la Provvidenza non ha bisogno di essere cercata, è lei che ti cerca.
Spinto dagli altri ragazzi, decisi di andare a conoscerlo. Dopo qualche settimana di frequentazioni, le mie vacillanti postazioni semi-gnostiche erano crollate quasi del tutto. Dopo qualche mese, quasi tutto il gruppo “neo-pagano” di Europa Civiltà di Torino partecipava, alle sei del mattino, alla Messa “solitaria”, nel rito di San Pio V, che Don Pace celebrava a Maria Ausiliatrice, nella stanza di Don Bosco. Nonostante le infinite debolezze della nostra anima, il Viaggio era iniziato. “E Gesù gli rispose: Seguimi, e lascia che i morti seppelliscano i loro morti”.
Don Pace non era un intellettuale nel senso modernamente gramsciano del termine. Era un sapiente, nel senso biblico. L’immensità della sua cultura (forse superiore a quella dello stesso Elias de Tejada) si celava in una umiltà perfetta. Era stato Docente di Esegesi e di Metafisica all’Università Lateranense, scritturista di fama (suoi i due preziosissimi volumi dell’Antologia Biblica), autore di testi agiografici e catechetici (tra cui diversi in uso scolastico), poliglotta (conosceva benissimo persino l’aramaico), liturgista (memorabili le sue polemiche sul novus ordo) e polemista su varie riviste. E, può anche apparir strano a chi non lo conosceva, era anche romanziere “religioso” (ricordiamo, per tutti, il suo Pio XIV, Pontefice di transizione), scienziato, botanico, “farmacista”, apicultore, esperto di funghi, e persino scrittore di libri gialli. Molti suoi volumi erano, naturalmente, firmati con pseudonimi vari.
Ma, più di ogni altra cosa, egli era un Esempio di vita. Quella “unità dell’essere” che Meister Eckhart e Silesio predicarono in modo pericolosamente ereticale, in lui aveva invece un sereno e interiore compimento esistenziale e spirituale. In lui il “distacco” dei mistici tedeschi si realizzava in un’accettazione sorridente del dolore, in una impermeabilità alla preoccupazione mondana, che era solo e soltanto il riverbero dell’amore evangelico. Nulla lo spaventava e tutto era pronto a ricevere e donare. La sua carità era illimitata: “Al di sopra di tutto, vi sia la carità”.
Un episodio per tutti. Nell’estate del 1974, Violante (giudice a Torino, insieme a Caselli e Pochettino) scatena una gigantesca “caccia al fascista” che rievoca i tempi di Beria, nel senso che nel suo “teorema” complottando ci sono dentro tutti, tranne i comunisti. Se la creme della partigianeria (da Edgardo Sogno a Martini Mauri) cade nella sua rete, figuriamoci i “fascisti”. È la distruzione di centinaia di vite, è lo sconvolgimento di centinaia di famiglie. Nessuno, di coloro che non militano nella destra “ufficiale”, può sentirsi esente da possibili mandati di cattura. Non voglio regalare dieci anni della mia vita allo Stato e decido di cambiare aria. Vado da Don Pace e gli espongo i fatti. Con il suo candore, organizza immediatamente una colletta per me e mi consegna una decina di lettere che scrive a macchina, una per una, tutte autografate da lui, e indirizzate ai Direttori dei seminari salesiani di Svizzera e Francia. Nelle lettere c’è scritto testualmente: “il latore della presente ha bisogno di asilo e di occupazione temporanea, per sottrarsi alle vessazioni cui è fatto segno da parte di certe nostre autorità filocomuniste, alla caccia di giovani che si sono segnalati per la loro attività nel campo cattolico e anticomunista…. Lo raccomando alla Sua carità, sicuro che si prenderà a cuore il suo caso; del che Le sarò riconoscente come fatto a me. La Madonna La ricompenserà.”. Un atto di inaudito coraggio, tra un clero che certo per coraggio non ha mai brillato. Se mi avessero beccato con quelle lettere addosso, il primo che sarebbe finito dentro, con grande disappunto della sua Congregazione, sarebbe stato lui, Don Pace. Ma lui se ne infischiava dei pericoli e dei giudizi dei superiori. Era un uomo libero di cuore. Ricordo quando alcuni di noi “fascisti reietti” erano senza lavoro, malati, emarginati. Quel che riusciva a raccogliere con le offerte, lo faceva pervenire ai “nostri” bisognosi.
Ma quella Messa “antica”, seppur a mattutino, a Maria Ausiliatrice, non era più tollerabile per la Chiesa del post-Concilio. Già perseguitato per il suo tradizionalismo dichiarato, Don Pace fu colpito dai superiori salesiani con il più duro dei provvedimenti disciplinari: l’esilio a Casellette, sulle montagne piemontesi, ed il conseguente, implicito divieto di celebrar messa (quella Messa) all’altare di S. Pietro, a S. Maria Ausiliatrice. Accettò anche questo, con serenità incredibile. E lì, su quelle montagne che fronteggiano il Musinè – il monte delle streghe- lo sono andato a trovare, prima che lo ricoverassero nell’Infermeria di Valdocco, ogni qualvolta che mi recavo a Torino. E fu lì che Mons. Lefebvre – già, proprio lui in persona – volle recarsi, per conoscerlo e rendere omaggio a quell’esile sacerdote dalla barba bianca di cui aveva letto gli scritti e la cui fama di “beato in terra”, fedele alla Tradizione, era arrivato sino a lui.
Nei ventisei anni che hanno preceduto la sua scomparsa, il nostro rapporto è sempre stato costante. Continuava a darmi del “lei” e, solo nel 1990, dopo sedici anni, cominciò a darmi del “tu”. Si interessava attivamente di politica, senza tuttavia lasciarsi interamente coinvolgere da quel mondo. Rispondendo ad una mia richiesta di fare da “assistente” al gruppo di Tradizionalismo Popolare sorto nell’ambito rautiano del MSI, con la sua profonda saggezza e preveggenza scriveva “Assistente spirituale? Ma se sono un povero vecchio bacucco! Tutto il mio appoggio, il più cordiale, lo avrete nel ricordo quotidiano nella mia Messa: è lunga, c’è posto per tutti”.
Una sola volta fra noi ci fu un rispettoso dissenso. Fu al momento dello “scisma” lefebvriano dell’88. Lui in difesa di Lefebvre, io in posizione nettamente critica. Naturalmente, aveva ragione lui. L’ho capito in ritardo, ma, grazie anche a lui, l’ho capito.