di Pino Tosca
L’ultimo numero della rivista Area, ancora in edicola, si apre con una lettera di Gianfranco De Turris, Presidente della Fondazione Evola, che dice a chiare lettere che nelle elezioni europee e amministrative del 13 giugno non avrebbe votato per AN, giudicata un partito senza identità, e se ne sarebbe stato andato al mare. De Turris, che comunica di aver votato, in passato, per il referendum antiproporzionale e di aver condiviso tutte le scelte bipolari di Segni e compari, ammette onestamente, con cinque anni di ritardo, di aver finalmente capito che quelle scelte, vanno ripensate poiché “errare umanum est, perseverare diabolicum”.
In base a ciò, De Turris ritiene “inutile, grottesco e quasi suicida” per AN l’imbarcamento “di pattisti e transfughi ex radicali” ricordando a mister Fini quel che tutti sanno (anche perché ci ha pensato Berlusconi a ricordarlo in televisione): che “Segni rifiutò sdegnosamente il voto a Fini come sindaco di Roma e fu eletto Rutelli che ci teniamo grazie a lui”, che “Segni rifiutò di allearsi col Polo nel 1994” per un motivo ideologico: AN, secondo il politico sardagnolo, era “fascista”. Ecco perché, dice giustamente De Turris, “non ho intenzione di votare un simbolo che contiene un elefante… e di contribuire ad eleggere chi fino a ieri ha sputato in faccia alla destra, come Segni, Masi e Taradash.
La lettera di De Turris si conclude con un cortese ultimatum: se i risultati elettorali diranno che io mi sbaglio, vuol dire che la coerenza è ormai una virtù degli imbecilli, se invece diranno che ho avuto ragione, allora qualcuno degli alti papaveri di AN ne deve prendere atto e tirarne le doverose conseguenze.
Come tutti hanno potuto constatare, De Turris ha avuto ampiamente ragione. Del resto, su queste colonne, io stesso ero stato facile profeta. Bastava ascoltare la gente di strada e la stessa “base” dei circoli per accorgersi che, dopo la batosta del referendum, e l’arrivo del nuovo animale (l’elefante), per AN le cose si sarebbero messe male e che si stava imboccando una strada senza ritorno. Solo le “cupole” (da quella romana a quella barese) fingevano di credere il contrario, arroccate, come le tre scimmiette, in un mix giacobino di imbecillità e arroganza politica.
Si è voluto dare un “segnale” a Berlusconi, ricevendo un ceffone da tramortire un elefante, appunto. Fini, che da lungo tempo sta dimostrando la sua totale inconsistenza politica e culturale, finora non ne ha azzeccata una. Ma rompe i cocci e non paga mai.
Cominciò a mettersi d’accordo con D’Alema per la Bicamerale ed il Berlusca, intuito il giochetto a due, fece crollare l’esperimento, dando il primo calcio nel sedere all’estimatore di John Wayne e dicendogli in politichese: “ragazzino, dove vai? Fatti mandare dalla mamma”.
Non sapendo più che fare per accreditarsi nei salotti buoni del mondialismo, Gianfranco si tuffò nello studio della zoologia, a caccia di qualche essere bestiale che lo rappresentasse adeguatamente, per spegnere del tutto quella “fiammella”, missina e nostalgica, che tanto ingombrava la sua compassata immagine di abbronzatissimo businessman. E volle adottare il simbolo dei gay francesi, la coccinella: i primi rovesci si fecero sentire, anche con le piazze dei suoi comizi semideserte e gli sfottò che gli piovevano addosso persino da Forza Italia.
Si mise allora a cercare un’altra bestia e trovò l’elefante di Segni, questo noto portajella nazionale, la cui forza elettorale è costituita dal voto suo, di sua moglie e di quattro amici al bar. La sfrenata voglia di servilismo internazionale e la assoluta mancanza di fantasia spinse Mariotto e Gianfranco non solo a proclamarsi più americani degli yankees, più liberaldemocratici di Zanone e La Malfa, ma ad adottare i simboli stessi dell’americanismo. Se i democratici di Prodi e Di Pietro hanno adottato il ciuccio di Clinton –hanno intelligentemente pensato- noi ci prendiamo l’elefante di Reagan. Non solo; ma, aperte le porte con tutti gli onori ai peggiori nemici della cosiddetta “cultura di destra” (i radicali), mister John Frank li ha voluti tutti collocare ai posti d’onore nelle liste elettorali con la promessa di far eleggere al Parlamento europeo i Taradash, i Calderisi, i Caccavale, i Masi, vale a dire quanto di più ripugnante, per un uomo di destra, possa esserci in circolazione. Loro, così filo-amerikani, non hanno nemmeno pensato che Roosevelt aveva ragione quando ammoniva: “un radicaler è un uomo con i piedi fermamente piantati in aria”.
E così dei fanatici abortisti, liberalizzatori della droga, servi dichiarati dell’imperialismo amerikano e del turbocapitalismo hanno capeggiato le liste di AN all’insegna di un elefante che, sotto le sue zampe, schiacciava una invisibile fiammella.
Gianfranco, convinto che la sua telegenia sia la formidabile arma che gli permette di darla a bere, per l’eternità, a tutto l’elettorato, senza mai porsi in discussione, non ha capito che un bel gioco dura poco. E nel suo caso è durato anche troppo.
Ma perché mai un elettore di destra, disinteressato, avrebbe dovuto votare per lui? I conti sono semplici. Se l’elettore è il classico “moderato” di destra, la scelta è obbligata: Berlusconi, dimostratosi più anticomunista, più chiaro ed anche più grintoso di Fini. Il ragionamento fila liscio: se la linea è la “liberaldemocrazia” anticomunista, meglio allora votare per l’originale che non per la fotocopia illeggibile.
Se l’elettore è invece il vecchio militante delle radici missine e degli “ideali”, ci sta pronta la Fiamma di Rauti, del resto ben visibile nella sua recente amplificazione grafica. O, al massimo, un disincantato e disgustato astensionismo.
Per Fini, in ultimo, poteva votare la sterminata serie dei clientes accumulati nell’ultimo quinquennio, gli apparati di partito, i cultori della telecrazia e delle lampade abbronzanti. Ma non la “gente”, che Fini da tempo non ascolta più.
Aver preso pubblicamente atto della sconfitta elettorale e aver rimesso in discussione la sua leadership fa solo parte della sceneggiata. Il tutto, vedrete, si risolverà con un applauso di comprensione, e le poche voci isolate di contestatori saranno subito zittite. AN è un partito di invertebrati e di molluschi, di “impiegati” smaniosi di far carriera, antropologicamente lontani anni-luce dalla militanza del vecchio MSI. Lì, ai congressi, volevano cazzotti e idee, qui si vedono solo mani plaudenti, schiene ricurve e cervelli vuoti.
Basti pensare al caso Bari. Prima, c’era Tatarella, il vicerè onnipotente verso cui tutti o quasi, strisciavano in affettata adorazione, pronti a ricevere ogni pubblica umiliazione per essere nelle grazie di Pinuccio. Ma adesso che lui non c’è più e ci sono questi quattro ometti da spiaggia che fanno il bello e cattivo tempo in via Piccinni e altrove, c’è forse qualcuno che osa sbarrargli la strada? L’on. Marengo li definisce “mezze figure, troppo velleitarie”. Sì, ma lui che ha fatto sinora per contrastarli? L’on. Polizzi non sapendo che pesci pigliare va in tv e tranquillizza tutti perché “il problema morte di Tatarella è abbondantemente superato”. Pace all’anima sua, ma il problema “morte di AN” è ancora caldo sul tavolo operatorio.
La situazione è senza via d’uscita. E la fine non è che un problema di tempo. Nemmeno una terapia Di Bella riuscirebbe ad estirpare il cancro da questo partito. Tutto scivolerà, lentamente, verso la bara. AN nel capoluogo pugliese non sarà mai commissariata. La cupola continuerà a vincere Congressi da lei stessa preparati a tavolino. Nelle istituzioni ci andranno solo i graziati dai capiclan. È inutile continuare a rompersi la testa: come altrove, la squadretta barese ha la copertura dei vertici romani. Perché, com’è noto, il pesce puzza sempre dalla testa.