IL CANTO COME ESPERIENZA ESISTENZIALE

di Pino Tosca

Per circa vent’anni la gioventù neofascista italiana ha vissuto, sul piano dell’espressività musicale, sull’eredità dei venticinque anni di fascismo storico. In pratica, di sterilità produttiva.

Un quarto di secolo di torcicollo canoro, senza una canzone nuova, senza alcun pensiero artistico sulle lotte del tempo vissuto. Nelle sezioni missine, e altrove, alla guida della hit-parade cantata resistevano imbattibili Faccetta nera, All’armi, Battaglioni M e consimili.

Risalgono solo alla metà degli anni Sessanta i primi tentativi di aggiornamento del repertorio canoro della cosiddetta “destra”. Il Bagaglmo, prima, e Il Giardino dei Supplizi, dopo, finalmente riuscirono a imporre un genere di autarchia musicale scissa dal puro e semplice nostalgismo. Pur tuttavia, i testi di quelle importanti esperienze artistiche nascevano dall’osservazione della situazione politica, presente e passata, più che dall’esperienza personale di una militanza. Era comunque un autentico salto di qualità il fatto che, grazie a Leo Valeriano, si cantasse Budapest invece che Giarabub o Berlin piutto sto che La marcia delle legioni.

Furono, immediatamente dopo, il Movimento Integralista ed Europa Civiltà gli ambiti in cui si iniziò la produzione di testi che raccontavano l’avventura diretta della militanza. Vale a dire, testi in cui ci si raccontava più che raccontare.

Le due esperienze -Movimento Integralista ed E.C. -seppur in successione diretta sul piano cronologico- non erano comunque assimilabili, oltre che sul piano formativo, proprio sul piano artistico. L’Integralismo, basato com’era su una formazione “militarista” degli adepti, non poteva andare oltre lo schema della “marcia”, per cui tutti i testi, adattati per la maggior parte su musiche militari tedesche, erano pervasi da uno spirito bellicista che oggi, sinceramente, può far sorridere. L’Inno della Compagnia di Soccorso, L’Inno dei Motociclisti, Le Folgori

Marine erano sì la descrizione “di dentro” dell’esperienza storica che si compiva, ma riciclati, com’erano, su Panzerlied o sull’inno dell’Afrikakorps, non potevano che grondare retorica.

Ben diversa l’eperienza artistica di Europa Civiltà. Qui la creatività fu affidata alla più totale onginalità. Per la prima volta nell’area della “destra” italiana nacquero racconti, canti, poesie, musiche totalmente scisse da un inconcludente “virilismo” fine a se stesso. Dalla “marcia” si passò alla ballata che, in massima parte, rifletteva situazioni esistenziali o di lotta, ma vissute dal di dentro. Insomma, la poesia era testimonianza più che racconto storico. In molti casi, il testo era fermentato dalla parti-colare situazione che la comunità stava vivendo sulla propria pelle. L’artista più completo poeta, musicista, pittore, scultore fu Carmine Asunis, deceduto qualche anno fa in Sardegna, ove da anni si era ritirato a vivere impostando tutta la sua vita sull’espereinza cristiana. A lui si affiancarono Mario Polia (oggi archeologo di fama mondiale), Massimo Forte, chi scrive queste note ed alcuni altri. Nel giro di pochi anni, l’esperienza di E.C. varò una sterminata produzione artistica (canzonieri, antologie, recitals) destinata, purtroppo, quasi sempre ad “uso intemo”. Ad Asunis prestò la sua voce anche Stefania Vicinelli che, allora, collaborava con Claudio Baglioni.

Come si diceva, molte di quelle canzoni nacquero dalla concretezza storica che, in quegli anni, coinvolgeva Europa Civiltà. Così, La Tempesta (italianizzazione di Al Fatah) fu scritta e musicata in un momento drammatico, quando si pensava che il PCI avrebbe preso il potere e la repressione verso la destra (già molto dura in quegli anni) si sarebbe ancor più accentuata. Ci fu chi propose un esodo di massa, mentre il Movimento rispose con questa canzone: “La Tempesta mi ha detto: Rimani / avrai freddo e compagni dispersi / la Tempesta mi ha detto: Domani / la tua terra avrà cieli diversi”. Ai miei amici perduti, invece, raccontava la biografia dei giovani

proscritti del Centro torinese di Ordine Nuovo, cavalieri erranti in un mondo inaccettabile. Addio libertà e Libera nos a malo erano dedicate alla repressione giudiziaria in Italia contro E.C. e alla prigionia in Unione Sovietica di Gabriele Cocco.

Certo, non si raccontavano solo le vicende che ci riguardavano da vicino. Il riferimento al mito e alla storia era quanto mai suggestivo. Barbarossa sul Kyffhauser, Al folle cavaliere (dedicata a Don Chisciotte), Siddharta, La spada e la rosa riproponevano il mondo inafferrabile della metastoria. Ma la storia stessa trovava il suo spazio con composizioni come Ribelli di Vandea, Cosacchi Bianchi, lo credo (dedicata a Jan Palach) o la Ballata di Ivan Jilic (un giovane ustascia fatto fucilare da Tito).

Oggi, guardando indietro, a quell’agitazione umana, politica e artistica, da cui ci separa un quarto di secolo, non è difficile scorgere in essa un eccesso di sentimentalismo, oltre che l’influenza di De André e Guccini. Forse perché eravamo moto più romanticamente giovani o perché gli Anni di Piombo non c’erano ancora. Forse perché la nostra autosoddisfacente “esclusione” dalla società civile” era un fatto più esistenziale che politico.

È vero: la repressione aveva costretto molti di noi all’esilio, al carcere, all’autodifesa. Ma ancora dovevamo vedere l’infinito sangue sul selciato dei nostri fratelli, come maledettamente accadrà poco dopo. Ecco perché in quei canti c’era più malinconia che rabbia.